Il logos ama nascondersi (Eraclito). A maniera di epilogo

Contributo al libro di Claudio Naranjo su GESTALT DE VANGUARDIA ed. La LLave, 2003

Di Riccardo Zerbetto

A proposito della teoria della Gestalt terapia

Una di quelle notizie inaspettate e insieme attese. Così mi è suonata la voce di Claudio Naranjo quando mi ha comunicato di attendersi da me un contributo ad un volume sull’Avanguardia nella Gestalt. Un articolo che, in particolare, toccasse il rapporto tra teoria ed esperienza nella Terapia della Gestalt.

Un tema che rotola nei nostri incontri, ravvicinati o a distanza, nei due decenni dacchè ho avuto la sorte di incontrare Claudio Naranjo. Eco, in fondo, del quesito antico che l’uomo da sempre si pone sulla possibilità di     conoscere se stesso e l’architettura del mondo.

Sul crinale incerto di tale interrogativo Claudio ha scelto la posizione – coraggiosa per un medico e uomo di scienza, seppure umanistica, come è la psicoterapia – di non ritenere, nella sostanza, che una simile disciplina possa fondarsi su postulati definiti e trasmissibili come modelli teoretici. Il corollario di tale impostazione, applicato nel caso più specifico alla terapia della Gestalt, appare conseguente ma non per questo meno inquietante. Su cosa può fondarsi infatti l’insegnamento e la prassi di una disciplina che pur viene ricondotta al tema della cura (notoriamente, seppure inadeguatamente, imparentata con la dimensione della scienza) se non ad un insieme sufficientemente organico e autosostenentesi di modelli concettuali? In definitiva: la Gestalt ha o non ha una teoria di supporto che ne legittima la prassi, la comprensibilità  nonché la trasmissibilità attraverso i canali della dizione e del testo scritto?

Nutrendo un convincimento in parte diverso da quello di Claudio Naranjo, ho apprezzato la contro-provocazione implicita nell’ospitare in un volume da lui curato una tesi che, nel prologo, non esita a definire una provocazione. Ma apprezzare le differenze è uno dei grandi insegnamenti lasciatici da Perls. La sfida è di accettare tale dialettica, anche nella situazione forse estrema e cioè all’interno della relazione maestro-discepolo; cosa che anche allo stesso Perls, almeno nei confronti di Claudio Naranjo, pare non sia sempre riuscito

Un’ambizione irrealistica?

Nella premessa alla Gestalt Therapy: Excitement and Growth in the Human Personality (F. Peris, R. Hefferline, and P. Goodman. New York: Julian Press, 1951) Perls esprime chiaramente nella premessa le sue ambizioni in campo teoretico: “Abbiamo avuto in comune uno scopo: sviluppare una teoria e un metodo che estendessero i limiti e le possibilità d’applicazione della psicoterapia”.

Delle 800 pagine dell’Handbook of Gestalt Therapy a cura di C. Hatcher e P. Himelstein (Jason Aronson Ed.del 1976) solo una decina vengono dedicate da Gary Yontef alla Theory of Gestalt Therapy.  Nelle stesse l’autore si limita essenzialmente a richiamare i postulati enunciati da Perls e Goodman che in sintesi sono:

Contact, the work that results in assimilation and growth, is the forming of a fìgure of interest against a ground or context of the organism/environment” (1951) da cui deriva che “The ultimate goal of the treatment can be formulated thus: We have to achieve  that amount of integration which facilitates its own development” (Perls, 1948, p. 12).

“The goal in Gestalt Therapy is maturity” che Perls definisce come ‘the transition from environmental support to self-support” (1965) L’autosostegno “implies contact with other people. Continuous contact (confluence) or absence of contact (withdrawal) are contrary to what is implied (Perls, 1947).  L’autosostegno implica quindi una situazione di contatto efficace nel campo organismo/ambiente.

Al di là della ragionevolezza di tali enunciati, i gestaltisti sanno fin troppo bene come non sia sufficiente la acquisizione intellettuale degli stessi per tradurli in una prassi terapeutica efficace e che possa connotarsi autenticamente con la definizione di terapia della Gestalt. Tale constatazione ha portato Claudio Naranjo a concludere che “la quintessenza della situazione gestaltica sia puro sperimentalismo”. 

La prospettiva di uno sperimentalismo ateorico

Su questo tema, Claudio ha sviluppato negli anni un approccio teoreticamente ateorico. Non casualmente ha usato espressamente questa dizione come titolo della pubblicazione che ha accompagnato la sua riflessione sulla teoria (o non teoria) della Gestalt a partire dal 1964 quando, in occasione di una raccolta di scritti per il settantesimo compleanno di Perls, scrisse Present Centeredness-Technique, Prescription and Ideal (poi pubblicato in Gestalt Therapy Now di Fagan e Shepherd), quindi ripreso nel 1970, per completare un “unfinished business” – come Claudio stesso ci dice nella prefazione all’ultima versione – nelle settimane che seguirono la morte di Fritz e che, per inciso, coincise con la morte dell’unico figlio Mathias. Il manoscritto, che doveva essere pubblicato nel 1971, sparì in un negozio di fotocopie e comparve poi, solo in parte, come The Thechniques of Gestalt Therapy (SAT Press). Venne successivamente ripreso come monografia del Gestalt Jurnal nel 1980 ed, in parte, come Tecniche espressive nell’ Handbook of Gestalt Therapy a cura di C. Hatcher e P. Himelstein. Tradotto in italiano come Teoria della tecnica Gestalt (Melusina, 1989) e in spagnolo come Vieja y Novissima Gestalt (Cuatro Vientos, 1994) uscì finalmente come Gestalt Therapy. The Attitude & Practice of an Atheorethical Experiencialism  (Gateways Publ. 1993).

La posizione che riprende Claudio, già nella premessa nella prima edizione, è chiara e rappresenterà una posizione con cui tutti i gestaltisti si sono confrontati in questi 30 anni: “Some of these techniques are not unique to gestalt therapy and perhaps every one of them maybe regarded as a variation (intentional or not) upon a technique to be found in an alternative form of psychotherapy or in some system of spiritual guidance. Yet a session of gestalt therapy could not be confused with any other, for the approach, we might say, constitutes a new and unique Gestalt” e ancora “In no way, however, do we feel inclined to regard gestalt therapy as a composite of approaches or as a merely eclectic approach. Just as we do not think of Bach’s music as a composite of previous Italian, German and French styles (which in a way it is), but are more struck by the uniqueness of an emerging synthesis than by the recognition of its components, so the new building of gestalt therapy impresses us more than the bricks”. Il fine dell’uso di queste tecniche è essenzialmente mirato ad uno scopo: “Gestalt therapy aims at the awakening of awareness, of the sense of actuality and of responsibility, is equivalent to saying that its aim is the ability to experience”. 

Ovvero per una teoria della tecnica

Posto in questi termini, “it’s clear that the choice of “attitude” rather than “theory” is of the essence of this theme” come ricorda Abraham Levitsky nel prologo all’ultima edizione del libro. Esplicitamente, ancora, Claudio sottolinea nella sua introduzione come “I have deliberately refrained from calling my early book The Theory and Practice of gestalt Therapy . The choice, rather, of Gestalt Therapy. The Attitude & Practice implicitly reflects my view that gestalt therapy has not arisen as the application of a body of theory (that might be called its foundation) but is, rather, a matter of being in the world in a certain way”.

In tale posizione, Claudio si dice vicino a Perls “I practice Gestalt Therapy I am at least as atheoretical as Fritz was, and feel not only deeply sympathetic tohis position, but also interested in celebrating it at a time when most gestaltists feel embarrassed vis-à-vis the academicians who disdain them for not having enough of a theoretical edifice”. Questa posizione precisa “It certamly did not involve the belief thiat therapists should be ignorant” e su questo punto non vi è motivo di dubitare dal momento che Claudio Naranjo è indubbiamente ricco di una cultura di ampiezza come solo eccezionalmente è dato riscontare, sia per la profondità che per la vastità di interessi che vanno dalla scienze della psiche alla musica all’antropologia, alle religioni, alla mitologia, alla letteratura, solo per citare le più evidenti. La convinzione di Claudio, ribadita in più occasioni nelle quali ho avuto modo di leggere i suoi scritti o ascoltare il suo pensiero è che “I think that Gestalt therapy always transcended the theoretical formulations about it, and that it came into its own when Fritz, later in his life, broke free from “elephant shit” and the need to validate his praxis through academic rationalizations”. 

A proposito della bibbia della Gestalt

Ho riportato in modo relativamente estensivo alcune citazioni perché ritengo che questo punto sia essenziale, non  solo per un dibattito che ho in corso con Claudio che considero senz’altro mio maestro, ma per lo sviluppo in generale della elaborazione teorica nel mondo della Gestalt ed in generale se, con Perls, siamo convinti del ruolo significativo che questo orientamento è chiamato a svolgere nel campo della psicoterapia e delle scienze umane in generale.

Il fulcro del dibattito sulla teoria nella Gestalt si impernia in particolare su quello che viene comunemente indicato come il fondamento della costruzione teorica della Gestalt: la cosiddetta Teoria del sé considerata, a seconda dei diversi gestaltisti, colonna portante della Gestalt terapia (S. Ginger) o costruzione teorica innecessaria e adottata prioritariamente a fini strategici per ottenere credito in ambito scientifico.

La intrinseca ambivalenza circa tale quesito si radica nella sua stessa storia. Il capitolo che presenta questo tema nella bibbia della Gestalt (Gestalt Therapy: excitement and growth in human personalità del 1952) venne infatti “sviluppato ed elaborato da Paul Goodman” riconosce Perls (in In and Out the Garbage Pail del 1969) che tuttavia ebbe a riappropriarsi dell’originalità del contributo alla fine della sua parabola di vita e professione definendo quindi la sua non-estraneità al tentativo di codifica teoretica che vi viene presentato chiarendo nella stessa occasione come “La terapia della Gestalt giunge adesso alla sua maturità, benché io abbia scritto il manoscritto originario circa vent’anni fa”.

A riprova di tale processo di riappropriazione dei fondamenti teorici della Gestalt nell’ultima parte della sua vita, che pure coincise con lo sbocciare della sua attitudine anti-accademica  ed esperienziale, Perls annota in In and Out come “Nel 1950, Art Ceppos si prese il rischio di pubblicare il quale – come tutte le sue pubblicazioni – percorreva delle strade non ancora battute. Certamente egli rischiò, però seppe fare un buon gioco. Le vendite di La Gestalt-terapia aumentarono ogni anno, e oggi, dopo diciotto anni, ciò continua. Le mie previsioni erano che ci sarebbero voluti cinque anni per far conoscere il titolo del libro, cinque anni per far interessare la gente al suo contenuto, cinque anni per farlo accettare, e altri cinque anni per l’esplosione della Gestalt. Ed è ciò che pressappoco sta succedendo” ed aggiunge con giustificato orgoglio come Aldous Huxley, che defìnisse Gestalt Therapy «l’unico libro di psicoterapia che valga la pena di leggere».

Nelle pagine che seguono cercherò di sintetizzare alcuni punti inerenti la teoria della Gestalt, collegata in particolare al concetto del Sé, per poi riprendere il quesito su quanto gli stessi concetti siano o meno intrinsecamente congruenti con la prassi che alla Gestalt terapia si ispira, specie se nelle sue  forme più evolute. 

La cosiddetta Teoria del sé

Il sé –  come sappiamo – viene definito come “la funzione di adattamento creativo” (F. Perls et al.,  1951), il risultato di una complessa interazione tra un organismo ed un ambiente nel contatto reale che tra i due si stabilisce in un luogo ed in un tempo defìniti. A questa interazione viene anche dato il termine di contatto. II termine sottolinea un aspetto molto concreto, tangibile appunto di questa interazione. Intenzionalmente Perls lo riporta con la lettera minuscola sottolinenado polemicamente come non si tratti di un joyau predeux, di qualcosa, cioè, che merita di essere personalizzato.

Generalmente, tuttavia, viene scritto con la lettera maiuscola risentendo sia dei contributi di C. G. Jung, e successivamente di orientamento transpersonale, che attribuiscono at termine un senso pleniore di realizzazione consapevole delle funzioni più alte della coscienza individuale nonché di psicoanalisti postfreudiani, tra cui emerge H. Kohut, che attribuisce al Sé sia i contenuti della mente (nella Psicologia del Sé in senso stretto, delineata in Narcisismo e analisi del Sé del 1971) sia un centro dell’universo psicologico (in La guarigione del Sé del 1978).

Al tema del Sé e del contatto mi sono dedicato in modo particolare da alcuni anni addivenendo ad una riformulazione di alcuni concetti che ho avuto modo di presentare inizialmente in occasione delle Giornate della Associazione di Gestalt a Valenza nel 1986, successivamente del Congresso della Associazione Europea di Gestalt terapia a Parigi nel 1988 e quindi del IV Congresso internazionale di Gestalt Per una scienza dell’esperienza tenutosi a Siena nel 1991. Negli atti dello stesso compare estesamente tale contributo che è stato anche pubblicato, in sintesi, in Gestalt: la terapia della consapevolezza (Xenia, 1999). Rimando quindi a questi scritti per una disanima sul tema mentre ringrazio Claudio, che al tema del Sé nei termini tradizionali non ha accordato mai particolare rilevanza, per l’occasione di ospitare un rapida sintesi del mio pensiero sull’argomento su un volume che intende raccogliere alcuni trends evolutivi nel capo della Gestalt terapia.

Il sé come membrana: modello, metafora, episteme

Un particolare che amo ricordare al proposito si riferisce ad una notte trascorsa in solitudine nel deserto di Almeria nel Sud della Spagna dove per anni Claudio ha condotto i suoi primi incontri residenziali intensivi denominati SAT. Nell’occasione di uno scambio di esperienze e contributi tra terapeuti che sarebbe avvenuto il giorno dopo, mi dette l’opportunità di mettere assieme pensieri vari collegati al tema del Sé per poterne fare una presentazione più sistematica. L’accoglienza alla mia dissertazione fu assai deludente, ma quella notte di stelle e di silenzio rappresentò per me in ogni caso la nascita di una gestalt intellettuale (nel senso di mettere insieme elementi prima scollegati) che mi diede una gioia intensa e che continua a rivelarsi utile nelle mie iniziative di formazione. Se è vero che, come dice l’Ecclesiaste, “non c’è nulla di nuovo sotto il sole” (verità che echeggia nell’espressione di Perls secondo cui “io non ho inventato nulla, la Gestalt è sempre esistita”) è anche vero che ogni tanto elementi pur già presenti si aggregano in insiemi nuovi producendo reazioni di sintesi che in qualche modo producono effettivamente un quid novum, almeno a livello soggettivo. Gli ingredienti che produssero la reazione di sintesi nel mio caso furono, oltre alla teoria del Sé della Gestat, gli apporti di uno psicoanalista francese, Didier Anzieu, che in una pubblicato nel 1985 un volume dal titolo L’Io pelle e nel quale richiama uno dei principi fondamentali avanzati da Freud e cioè che “ogni attività psichica si appoggia su una funzione biologica. L’Io-pelle trova il proprio appoggio sulle funzioni della pelle». Nel Progetto per una psicologia del 1925 (cui è stato data una attenzione immeritatamente carente rispetto ad altri scritti) Freud sviluppa la nozione di barriera/contatto (Kontaktsschrank) riferendosi alla funzione paradossale di fermare o attenuare il passaggio di informazioni come pure di struttura predisposta a rendere possibile il passaggio delle informazioni stesse. In realtà, sempre per citare Freud da L’Io e l’Es (Freud, 1923, tr. it. 9, p. 400), «l’Io deriva dalle sensazioni corporee, soprattutto da quelle che provengono dalla superficie del corpo. Lo si può considerare come la proiezione mentale della superficie del corpo… (e ancora) L’Io cosciente è prima di ogni altra cosa un lo-corpo (Korper-Ich)». Anche se Freud non parla di involucro accenna tuttavia ad una struttura con due strati (Freud, 1895, Op. 2, 202). Uno deputato elettivamente alla funzione di protezione-separazione-barriera (in analogia alla membrana cellulosica dei vegetali, alla pelle o pelliccia degli animali) ed uno alla funzione di contatto/comunicazione (quello più interno e dotato di recettori diversificati e recettivi ad una gamma assai ampia di informazioni). L’Io funziona quindi come un’interfaccia tra mondo esterno e mondo interno.

Anche per Anzieu: «L’esperienza si verifìca ai confini tra l’organismo e il suo ambiente, fondamentalmente nell’epidermide e negli organi di risposta sensoriale e motoria» (ibid. p. 267). Puntuale il riferimento di Perls il quale non manca di ribadire ad ogni piè sospinto quanto le funzioni psichiche non possono in alcun modo essere distinte o scisse da un’originaria dimensione organistica quale che sia il livello di funzionamento emergente «II contatto consiste nel toccare, nel toccare qualcosa. Non si deve pensare al sé come ad un’istituzione fissa; esso esiste ogniqualvolta e dovunque vi sia nei fatti un’interazione sulla via di demarcazione»(1951, p. 436).

E’ interessante notare come Perls riprenda il concetto anche in In and Out the Garbage Pail: «Il contatto è essere presente in ambedue le situazioni. Per semplifìcare: farcela è essere in contatto con la ZE (zona esterna, l’altro, l’ambiente); arretramento è entrare in contatto con ZM (zona mediana), o addirittura ZI (zona interna o zona del Se)» (Perls,1969, 121). Così si esprime in a proposito di una situazione in cui sente di tener conto di esigenze interne, quali la stanchezza per lo sforzo di applicarsi allo scrivere, ed esigenze esterne, in questo caso la necessità di finire un compito. Da una dimensione organistica elementare, quale potrebbe essere quello di un’ameba nel mezzo ambiente, Perls passa poi alla dimensione del pensiero dove, a proposito della ZM o zona della mente precisa “ In questa zona immagino, parlo a livello subvocale, chiamato spesso pensare; ricordo, pianifico, recito. So che sto immaginando eventi passati. So che non sono reali, ma immagini».

Il mio modesto (ma credo non irrilevante) contributo è di aggiungere che “Dove Freud, ed anche Perls, si fermano, in realtà, è nell’individuare come preminenti i fenomeni di frontiera/contatto nell’interazione individuo/ambiente, senza tuttavia dare al fenomeno la sua configurazione ultima e conseguente: quella di richiamare più esplicitamente il concetto di membrana-pelle. Di un’entità che non rappresenta solo una metafora, una possibile rappresentazione, ma un reale modello epistemologico, una autentica premessa organismica delle modalità di interazione/contatto tra un individuo, quale sia il suo livello evolutivo, e l’ambiente in cui si muove” (Zerbetto, 1991).

Giova ricordare, per inciso, come lo stesso sistema nervoso centrale deriva da una invaginazione del foglietto germinativo ectodermico. Implicazione questa di vasta portata seppure esula da questa occasione dedicarvi più spazio.

Il tema del contatto, inoltre, si definisce diversamente in funzione dei livelli ai quali lo rapportiamo. Può riferirsi infatti ad uno scambio di informazioni chimico-fisiche tra due entità inorganiche od organiche sino all’incontro tra due persone o gruppi sociali ai vari livelli in cui lo stesso può essere preso in considerazione.

Un Sé a più livelli?

Come si può notare, al concetto di Sé possono darsi differenti connotazioni. Questa via ultima comune della psicologia moderna – nonché delle discipline spirituali – rischia di creare non poche confusioni se non si definisce il livello al quale intendiamo riferirci.

Dai riferimenti riportati possiamo quindi prendere in considerazione più livelli del Sé

Il sé organismo (che in questo caso scriviamo con la “s” minuscola, come Perls preferisce, riferendosi a livelli elementari di interazione)

Il Sé persona, come unica ed irripetibile modalità-di-essere-nel-mondo di un certo individuo (per cui si preferisce la “S” maiuscola in quanto indicativa di una persona

Il Sé transpersonale, come indicativo di una particolare forma di realizzazione della persona che ha raggiunto o si avvicina alla realizzazione del suo potenzialità umano e si pone in relazione con l’Altro (individuo, società, mondo)

Il Sé trascendente, come entità (per chi aderisce a tale concezione) che trascende la corporeità e definisce l’elemento immateriale ed eterno (anima o psyché in senso platonico)

E’ fin troppo evidente che gli strumenti teorico-metodologici per studiare queste diversi livelli di realtà sono assai lontani. Se per i primi livelli è proporzionato e necessario il ricorso al metodo scientifico galileiano, lo stesso risulta inadeguato per i livelli più evoluti dell’organizzazione psichica, sociale e spirituale. Tale distinzione si presenta tuttavia problematica dal momento che, nella concezione di Claudio, a cui mi associo, lavoro sul livello corporeo, psicologico e spirituale rientrano in un unico processo che ha a che fare con la crescita dell’individuo. La stessa consapevolezza ha di per sé una potenzialità transpersonale e, ben coltivata, porterà come in un piano inclinato – per usare una espressione felice di Plotino – verso livelli più ampi e comprensivi di esperienza e di partecipazione al tutto. In tale prospettiva Claudio definisce la psicoterapia come uno “Yoga delle relazioni” aggiungendo che “una terapia esistenziale in atto richiede un’esistenza autentica, non solo un’abilità tecnica”.

Come è inevitabile, non vi è postulato psicologico che non sia collegato ad una concezione filosofica di fondo e che, ben prima della nascita di questa disciplina recente che chiamiamo psicologia, non sia stato oggetto di investigazioni nei millenni dacché l’uomo è in grado di interrogarsi su se stesso ed in particolare da quando ha sviluppato procedimenti autoriflessivi che chiamiamo filosofici. La stessa parola psicologia, letteralmente la scienza della psiche, rimanda inoltre al cuore stesso della speculazione sulla natura dell’essenza del pensiero e dell’identità umana ponendo l’antico quesito se debba intendersi come trascendente (posizione sposata, come è noto, da Platone) o implichi un elemento corporeo (nel nostro caso il sistema nervoso centrale) su cui sviluppare le sue funzioni (posizione sposata da Aristotile). Riprendendo un passo da un’intervista di Antonio Ferrara a  Claudio Naranjo (1992) si comprende quanto inadeguate possano risultare alcune affermazioni sul sé e sul contatto quando il livello di speculazione abbraccia concezioni di più ampio respiro ma che pure, nella stessa tradizione della Gestalt, non sono estranee “L’attitudine del Buddhismo è trovare alla radice della vita un “vuoto fondamentale”. Con questo si vuol dire qualcosa di trascendente, qualcosa che non si può definire concettualmente e che fuoriesce da tutte le categorie del pensiero. Questo modo di vedere esiste anche in altre tradizioni come ad esempio l’induismo secondo il quale, al centro della persona, si trova un “self” un sé stesso. Questa può essere una nozione di vuoto: è come svuotare il mondo di significato. Un altro senso è che il supremo, l’assoluto, quello che cerchiamo ben oltre il mondo, ha una natura di vuoto. In questo senso è qualcosa di cui non si può dire niente”. In altre parole, come poter definire il Sé (self) e soprattutto, come poter raccogliere e trasmettere gli strumenti concettuali e metodologici per favorire il suo sviluppo se per sua natura è, in ultima istanza, indefinibile?

Polisemia e prassi

Claudio Naranjo, nella sua sete inesausta di conoscenza ed esperienza, non sfugge a questo paradosso. In un suo scritto, The One Quest richiama un noto racconto sufi nel quale i fìlosofì, i logici e i dottori in legge furono riuniti a Corte per giudicare Nasrudin che andava dicendo di villaggio in villaggio: “I cosiddetti uomini saggi sono ignoranti, indecisi e confusi” minando in questo modo le fondamenta dello Stato. Per difendersi Nasrudin chiese “Prima di giudicare me, ditemi cos’è il pane?”. Il primo diceva: “il pane è un cibo”, il secondo “é farina e acqua”, il terzo “é un dono di Dio”, il quarto “pasta cotta al forno”, il quinto “variabile, a seconda di come intendete ‘pane'”, il sesto “una sostanza nutritiva”, il settimo “nessuno lo sa veramente”. “Se non possano accordarsi su qualcosa che mangiano ogni giorno – concluse Nasrudin – come possono decidere altre cose, per esempio, se io ho torto o ragione?”.

Come disquisire di argomenti complessi se già ci è difficile definire in modo concorde il pane che ogni giorno mangiamo? Nel frattempo, comunque, cerchiamo di mangiare buon pane, se possiamo, e forse con qualche cosa in più: con l’animo celebrativo di colui che ristà sempre sulla soglia del mai-dicibile-completamente. Del mistero quindi. Foss’anche si trattasse di un boccone di pane che si sta portando alla bocca. Che non sia eucaristia? Che quel pezzo di pane, in altri termini, non sia solo pane? Se “non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di dio”, come cita il Vangelo, può darsi che quello stesso pane, oltre che impasto di farina ed acqua, sia ben di più: un fascio di significati che fa di noi, nella dizione omerica dei “mangiatori di pane”, dei figli di Demetra non meno che di Dioniso come ci ricorda Euripide nelle Baccanti. E cos’altro ancora ed ancora?

Anche se lo spazio disponibile non ce lo consente merita riportare un’espressione riportata dallo stesso Perls a proposito del principio di Heisenberg (sempre in In and Out, 1969) relativa al fatto che: “i fatti osservati cambiano a seconda dell’osservatore”. Lo stesso oggetto osservato con un microscopio ottico, ad esempio, cambia sostanzialmente se osservato attraverso un microscopio elettronico. Non solo a motivo del diverso indice di risoluzione ma per il fatto stesso che il fascio di elettroni che colpiscono l’oggetto, nel secondo caso, modifica lo stesso rendendo cioè mal distinguibile l’oggetto osservato dal soggetto osservante.

Di fronte all’esplodere polisemico dei significati possibili … ci viene incontro, pacata e confortante, la dea della Prassi. Nella Teoria della Tecnica Gestalt (le cui successive pubblicazioni sono state riportate) Claudio indica già nel titolo del volume la priorità accordata alla prassi rispetto ad un discorso sui modelli che porterebbe lontani e forse anche … lontani dal fatto palpitante e vivo di cui vogliamo occuparci nella pratica appunto della relazione interpersonale.

Nella dedica al volumetto Claudio riconosce di essersi deciso a pubblicare questo contributo dopo dieci anni dalla sua stesura grazie ad un “compromesso” e cioè “estraendo, per la presente pubblicazione, la parte che segue sulla tecnica, senza aggiungere ad essa niente più che queste parole come inizio e senza cercare di completare la Gestalt non conclusa della sua fine artificiale” (Berkeley, 1972).

Una gestalt destinata a restare infinitamente aperta – e per fortuna – se non per chi (nuovo profeta del malaugurio) presumerà di aver carpito il fuoco onnicomprensivo di un sapere che tutto pretende di spiegare e, magari, imporre alla coscienza ed ai comportamenti dei suoi simili.

Non addivenne ad una simile conclusione il Sakiamuni definendosi più un medico dell’anima che un sapiente? Dedito quindi a praticare ed insegnare pratiche di liberazione dal dolore che sistemi di pensiero? O Socrate, il più saggio tra i filosofi (come sentenziò l’oracolo di Delfi) perché “sapendo di non sapere” dedicò la sua ricerca al conosci te stesso più che alle cosmologie o al Biondo Galileo (fa sempre un certo effetto citare Gesù – chissà perché – in testi che si propongono come laici) più interessato alla pratica dell’amore vicendevole che alla conoscenza “letteralistica” delle scritture?

Se quindi c’è un primato, tra conoscere ed operare, questo va attribuito a quest’ultimo. Un primato che la stessa Chiesa cattolica, pur condizionata da un imperante dogmatismo, ha il buon gusto (e la saggezza millenaria) di ribadire nel sottolineare il primato della teologia morale su quella teoretica. Non esiste infatti frase evangelica che non trovi una contraddizione seppure nelle poche pagine dello stesso testo. Come è possibile infatti essere “semplici come colombe e prudenti come i serpenti” o non poter servire a Dio e Mammona quando si deve “dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”? o affermare che il “Padre è sempre con me” salvo poi a gridargli “perché mi hai abbandonato?”? (curiosi i due punti interrogativi, ma mi pare ci debbano stare entrambi!).

Anche per Claudio (dall’intervista di Ferrara, 1992) “Tutto quello che possiamo dire di qualsiasi cosa si trova dentro una polarità: di tutto si può dire il contrario. Allora il vuoto ha un senso di ineffabilità che non è un niente ma che non ha caratteristiche denominabili, specifiche”.

E’ che, se la logica procede grazie all’aristotelico principio di non contraddizione –  per il quale: se A è A e B è B, A non è B e B non è A; e tertium non datur – questo non vale per la vita stessa nella sua complessità dove amo et odi, desiderio e timore, vita e morte non solo non possono escludersi a vicenda ma risultano inestricabilmente trama e ordito di una stessa tessitura.

Sempre rievocando il Biondo Galileo, si tratta quindi non di “sapere”  la verità quanto di esserlo. La verità stessa si presenta quindi come modalità di essere-nel-mondo. Una modalità – ahimè e per fortuna – sempre da scoprire e riscoprire e che difficilmente può consegnarsi imperitura all’interno di formule e concetti validi per sempre e per tutti.

Gestalt e perlsismo

La difficoltà è che, nel caso di Perls come di altri grandi maestri, i livelli sono intrinsecamente interconnessi per cui risulta meno agevole tenerli distinti. Quando la prospettiva teoretica si allarga a dismisura, come abbiamo detto, finisce per prevalere la dimensione operativa la quale implica, pur senza apparirne derivata, La struttura concettuale di riferimento.

Se noi identifichiamo la Terapia della Gestalt più autentica, come quella praticata da Perls in particolare nei suoi ultimi anni – cosa che Claudio fa senza riserve “In questo trovo Fritz il più grande rappresentante e quindi il vero padre dell’approccio. Non credo che ci sarebbe stata la Gestalt solo con Laura Perls (intervista di Ferrara, 1994) – appare chiaro che la trasmissione concettuale classica non corrisponde più al modello di insegnamento identificabile in Perls. Sempre per Claudio “Credo che lui fosse realmente un genio nell’interazione terapeutica, un genio per la terapia molto diverso da geni intellettuali. Le idee avevano un posto ma esse non erano così importanti come avrebbero voluto persone che avessero continuato a vedere la Gestalt come espressione/prodotto di una teoria”. Anche riguardo ad una mia successiva domanda relativa alla congruenza comunque di alcuni concetti inerenti la Gestalt terapia Claudio precisa come alcuni di essi siano “molto pertinenti, specie alcuni, seppure continuo a ritenere che la Gestalt sia più che le idee. Io penso, come sostiene anche Paul Schilder, che ci sia sempre un ritardo tra l’atto terapeutico e la teoria, che la teoria venga dopo la creatività della pratica” (intervista di Zerbetto, 1991).

Tra insegnamento accademico e … peripatetico

E’ nota la distinzione tra un insegnamento filosofico accademico ed un peripatetico. Nel primo il docente passa delle informazioni che potremmo definire oggettive, che non implicano cioè un rilevante elemento connesso alla individualità del docente e dell’allievo e quindi alla relazione tra i due. Nella seconda è l’andare insieme che costituisce l’elemento portante dell’apprendimento. Peripatetico era l’insegnamento di Socrate (anche se, con curioso paradosso semantico, Platone lo diffuse nei giardini ateniesi chiamati dell’Accademia), di Gesù, di Buddha. Non è quindi importante solo il che cosa viene scambiato ma il come si sviluppa una relazione che consente un passaggio di informazioni  – non solo verbali, ma anche gestuali, di modelli di comportamenti, di riverberazioni emozionali – che consentiranno al discepolo di assimilare una modalità di essere, prima ancora che di sapere, del docente cui, in questi casi, si dà più spesso l’epiteto di maestro. Nella riferita intervista Claudio ritiene che l’essenza della Gestalt appartenga a questo secondo tipo di insegnamenti “Sì, credo che la Gestalt sia essenzialmente un processo culturale messo in movimento da Perls; può considerarsi una specie di discendenza in linea diretta in occidentale nel senso in cui le tradizioni orientali la riconoscono: un contagio di consapevolezza e di conoscenze su alcune tecniche che passa per un’esperienza personale e che si trasmette attraverso le generazioni” (intervista di Zerbetto, 1991).

A ben vedere, tale paradigma può estendersi, nella sua essenza, anche a quello della prassi psicoterapeutica in generale (noti sono i molti studi che enfatizzano l’importanza della relazione in sé piuttosto che il modello teorico di riferimento) nella quale può prevalere l’elemento del passaggio delle informazioni (interpretazione) o lo scambio emozionale o comunque della “qualità della presenza”. Interessante al proposito è processo riscontrabile nello stesso contesto del procedimento psicoanalitico nel quale, secondo Freud, dopo una prima fase che riguardate l’analisi delle resistenze, si passa (quando si passa) ad una fase più evoluta nella quale l’oggetto specifico è la analisi del transfert che, seppure in senso restrittivo, può intendersi come analisi della relazione terapeutica.

Il paradosso estremo propostoci dal modello psicoanalitico è quello di dare il privilegio all’elemento relazionale tra due persone e nello stesso tempo rendere tale relazione fortemente coartata da una modalità applicativa e teoretica che implica una totale asimmetria tra l’analista (che può vedere senza essere visto) e l’analizzato. Tra i due vige inoltre il divieto del duplice contatto (visivo e tattile). Alla dimensione apollinea, improntata a distacco fisico e predominio dello strumento intellettivo-interpretativo privilegiata da Freud, si contrappone la modalità più empatica proposta da Jung ed ancor più attiva sviluppata da Ferenczi che privilegiò all’aspetto intellettivo quello riparativo nella relazione terapeutica che prevedeva quindi anche aspetti di contatto fisico (kusstechnik) come anche il trascorrere periodi di ferie accompagnato dai propri pazienti. Una polarità, quella tra Freud e Ferenczi, che accompagna l’evoluzione della teoria e della prassi psicoanalitica sin dai suoi albori e che potremmo accostare a quella archetipa tra Apollo e Dioniso. Due opposti che, nallo sviluppo autentico della coscienza sono destinati ad essere venerati nello stesso luogo, come Nietzsche ricorda ne La nascita della tragedia. Prova ne fu l’encomio di Freud alla morte di Ferenczi a cui aveva anche affidato (pur criticandolo) la presidenza della Associazione Internazionale di Psicoanalisi prima di morire.

E’ innegabile come lo stile dell’ultimo Perls, quello anche più contestato dai sostenitori della scuola della East Coast, fosse decisamente ferencziano. Il fatto che il Perls più realizzato, come terapeuta e maestro, del periodo di Big Sur – stando anche alla testimonianza di Claudio – legittima un forte sospetto che tale atteggiamento non fosse riconducibile soltanto alla componente “figlio di puttana” (accanto a quella di “figlio di dio”) che lo stesso Perls si riconosceva, quanto ad una estrema coerenza (non priva di eccessi, forse) nell’affidarsi alla intrinseca naturalezza dell’essere che trova in sé i suoi processi autoregolativi senza doversi necessariamente appellare a istanze etero-nomiche di carattere superegoico e inibitorio non suffragate dalla verifica con l’esperienza nel presente. “Essere un vero animale”. Non fu questo l’obiettivo che Perls si riprometteva di presentare (e non solo a parole, conoscendolo) ad una conferenza in ambito universitario se non fosse stato preceduto dalla morte?  Sul tema del recupero-realizzazione di una autentica naturalezza dell’uomo si è confrontato come con nessun altro. Un tema tanto più arduo quanto implicante una polarità potenzialmente oppositiva come istintualità e consapevolezza nonché l’impossibilità di facili generalizzazioni dal momento che la realizzazione dell’uomo non può essere uguale per tutti ma definirsi ogni volta in relazione allo specifico Uomo in questione. Forse per questo risuona sempre geniale ed attuale l’intuizione socratica (ripresa recentemente anche da James Hillman ne Il codice dell’anima) relativa al daimon, quell’entità unica ed irripetibile che ci abita potenzialmente e che sta a noi ascoltare e far emergere nel nostro percorso di realizzazione personale.

Maieutica, ovvero l’arte di far emergere il  daimon

Nell’Apologia di Socrate il Filosofo così si esprime al proposito: “in me c’è qualcosa di divino e di demonico […] Questo, che è in me fìn da bambino, è come una voce, che, quando si fa sentire, mi distoglie sempre da ciò che sto per fare e non mi spinge mai a nulla”.

Anche per Perls l’enfasi non viene posta nel tentativo di modificare la coscienza o il comportamento del paziente, ma essenzialmente nel renderlo consapevole di se stesso e delle eventuali possibilità di scelta consapevole “In un dato momento nessuno può essere diverso da ciò che è in quel momento, incluso il suo desiderio di essere diverso” (In and Out, 1969). Proprio nel tentativo educativo o autingiuntivo mirante a farci essere diversi da quello che siamo starebbe l’essenza della nostra difficoltà di realizzazione positiva. “II principio fondamentale sottostante a questi disturbi è la richiesta ambientale di essere ciò che egli non è, la richiesta di realizzare un ideale piuttosto che di realizzare se stesso. Egli Perde il suo equilibrio. Una parte del suo potenziale viene allora alienata, rimossa, proiettata. Vengono acquisite altre caratteristiche che fanno parte del comportamento falso, e che richiedono uno sforzo per mantenere l’indipendenza, e un esaurimento senza soddisfazione. Infìne questa profonda scissione tra la nostra esistenza biologica e quella sociale dà luogo a un numero sempre maggiore di conflitti e di ‘vuoti’”.

Per venire alla maieutica Platone, nel Teeteto, da una magnifica indicazione di ciò che significa e che merita riportare “arte maieutica ha le stesse caratteristiche di quella delle levatrici – precisa Socrate – differisce solo per il fatto che aiuta a partorire gli uomini e non le donne, e che si prende cura delle loro anime in travaglio e non dei loro corpi. Essa, poi, ha una capacità enorme: riuscire a verifìcare con ogni artifìcio se la mente di un giovane dà alla luce un pensiero illusorio e falso o se ne genera uno di genuino e vero. Perché, sotto questo aspetto, io sono davvero nella stessa situazione delle levatrici: non genero sapienza. Ed è vero ciò che molti ormai mi hanno rimproverato: che, pur interrogando gli altri, non mi pronuncio mai riguardo a nulla, con la motivazione che non sono affatto sapiente. La causa di tutto ciò è che il dio mi spinge a esercitare l’arte maieutica, ma mi ha impedito di generare. Io, di conseguenza, non sono sapiente in nulla, né mai una scoperta geniale ha visto la luce, come un figlio, dalla mia anima: tuttavia, di quelli che mi frequentano, all’inizio, alcuni almeno sembrano davvero ignoranti. Poi, però, con l’aumentare della confìdenza, tutti quelli a cui il dio lo conceda raggiungono risultati così stupefacenti, che se ne rendono conto sia loro che gli altri. Ed è evidente che ciò avviene senza che loro abbiano imparato assolutamente nulla da me: è da se stessi che hanno tratto i molti splendidi pensieri che partoriscono. In realtà, il merito di aver favorito il parto va al dio e a me, questo è chiaro. Tuttavia, molte persone ormai non vogliono riconoscerlo e, sottovalutando il mio apporto, si ritengono le uniche responsabili del proprio risultato positivo: per propria scelta o persuase da altri, quindi, se ne vanno prima del tempo e in tal modo, frequentando cattive compagnie, abortiscono il resto dei pensieri. Un cattivo svezzamento ha fatto dunque morire anche ciò che io avevo aiutato a portare alla luce”.

L’arte cui Socrate si riferisce, dunque (e per la quale venne indicato dall’oracolo di Delfi come il più sapiente fra tutti) non sta nel dire delle verità, ma nel saper tirare fuori da una persona la sua propria intima verità. Appunto come la levatrice aiuta la partoriente a tirar fuori un figlio che già porta in senso. Grazie a tale prerogativa Socrate si accredita il merito di aver conseguito “risultati stupefacenti” in coloro che si sono offerti alla sua arte anche a prezzo del sapere di non sapere spinto a duna dimensione estrema: accettare cioè, contrariamente a tutti i filosofi-scienziati del tempo e di sempre, il prezzo consistente nel fatto che “mai una scoperta geniale ha visto la luce, come un figlio, dalla mia ai mia anima”.

Seppure tali risultati avvengono “senza che abbiano imparato assolutamente nulla da me” Socrate appare ben consapevole del valore del suo intervento quando ribadisce senza mezzi termini che “in realtà, il merito di aver favorito il parto va al dio e a me, questo è chiaro”. Come a dire che la potenzialità intrinseca all’allievo – o come vogliamo chiamare la persona che si trova nella posizione della gestante – non ha (almeno sempre) la capacità di emergere per virtù propria ma abbisogna di un intervento che favorisca questo processo

Si può quindi dire che maieutica ed evocazione del daimon sono in realtà la stessa cosa. Solo nella misura in cui noi terapeuti (socratici) sappiamo entrare in contatto con il nostro daimon (non casualmente in un passo precedente Socrate indica nelle donne che già conoscono personalmente l’esperienza del parto la premessa indispensabile per svolgere la funzione di levatrici) potremo aiutare l’altro a far emergere il suo. L’arte consisterà quindi nel trattenere la spinta a trasmettere il nostro daimon all’altro, ritenendolo universalmente il migliore, ma a privarci di ogni certezza oggettiva per diventare facilitatori della nascita della soggettività dell’altro. Un compito che prescinde dalla competenza nel trasmettere informazioni e che presuppone una sorta di morte dell’Io del facilitatore per consentire la nascita dell’Io di chi si affida alla sua maieutica.

Vibrano in straordinaria consonanza espressioni di Perls come “Quando lavoro, io non sono Fritz Perls. Divento uno zero, un niente, un catalizzatore, e il mio lavoro mi piace”.

Come ricorda infatti Naranjo: “C’era poi un’altra dimensione che gli era propria e da cui derivava parte della sua influenza terapeutica sugli altri, e che consisteva nella misura in cui era se stesso; egli era strenuamente convinto della potenzialità terapeutica dell’essere se stessi. La Gestalt è una terapia esistenziale ed una terapia esistenziale in atto richiede un’esistenza autentica, non solo un’abilità tecnica” (intervista di R. Zerbetto, 1991).

La trasmissione per contagio

Più che una teoria da poter trasmettere sembra quindi che si tratti, a questi livelli di insegnamento, del passaggio di una modalità-pienezza-libertà-intensità dell’ esser-ci i cui connotati sono ovviamente difficili da decifrare. La principale materia di insegnamento, in questi termini, non è altro che il livello di sviluppo del terapeuta-maestro. Ancora Claudio (Gestalt Therapy): “To the extent that psychotherapy may be learned, this activity of eliciting genuine expression and confronting the dysfunctional constitutes strategy; to the extent that therapy derives from the degree of development of the therapists being, both of these will be the spontaneous outcome of uncontrived relationship and individual creativity” .

La relazione terapeuta-paziente sconfina quindi in quella maestro-discepolo dove la materia prima della trasmissione non si identifica più nel sollievo dalla sofferenza, ma anche nell’intraprendere un percorso di più piena realizzazione. Emblematico, nel rappresentare tale trasformazione nella relazione di aiuto, il rapporto tra Dante e Virgilio descritto in modo toccante nella Divina commedia dove, ad una prima fase improntata alla rassicurazione e all’accudimento (che potremmo avvicinare alle cure materne) ne segue una improntata maggiormente allo stimolo conoscitivo e alla di fiducia nelle capacità latenti (che potremmo avvicinare ad una funzione educativa di carattere più paterno).  Tale dimensione non appariva in modo esplicito nel lavoro di Perls che anzi ostentava un atteggiamento dissacrante e non orientato ad imitare atteggiamenti da guru come (è nota la sua espressione “mi piace la mia reputazione di essere sia uno sporcaccione che un guru. Sfortunatamente, la prima è in declino e la seconda è in ascesa” in In and Out). ma è sicuramente implicito nella sua definizione della Gestalt come una “terapia per sani”, un percorso cioè che mantiene la proprio potere evolutivo anche al di là della cura dei disturbi primari dello psichismo.

Se c’è una tradizione sapienziale alla quale Perls in modo privilegiato, questa è senz’altro quella dello Zen. Nonostante la distanza che Perls prendeva da certe ritualità stereotipe della stessa tradizione, è indubbia l’influenza avuta da questa prospettiva di vita che, non casualmente, non si fonda su una conoscenza direttamente trasmissibile di credenze ma sulla trasmissione di qualcosa che rimane, per sua natura, indefinibile. Gli strumenti della crescita sono infatti lo zazen– una forma di meditazione silenziosa nella quale il meditante è invitato ad entrare in contatto con se stesso … sino ai confini estremi del vuoto mentale – ed il koan, una provocazione paradossale mirante a destrutturate la logica associativa lineare più che a costruire sistemi di pensiero coerenti quanto inevitabilmente rigidi e dogmatici. Sono frequenti i riferimenti nel quali Claudio avvicina lo stile di insegnamento-contagio di Perls a quello di un maestro zen. Essenzialità, comunicazione diretta al limite della ruvidezza, disprezzo per le convenzioni, autenticità spietata con se stesso e con gli altri, apertura al paradosso dell’esistenza, contatto pieno con sé prima che con l’altro, sottilizza nel cogliere le nuances sensoriali e di pensiero, attenzione profonda, compassionevole e spietata insieme per chi si trovasse sul suo percorso, in particolare in occasione delle sue sedute-dimostrazioni. Di questo ci parlano quelli che lo hanno frequentato personalmente e che sono stati contagiati dal suo modo-di-essere e che anche alcuni di noi abbiamo la fortuna (e la responsabilità) di aver incontrato.

Significativa, sempre nella tradizione Zen, la trasmissione silenziosa dell’insegnamento: il i shin den shin (letteralmente da cuore a cuore). Non sono le parole – e quali parole potrebbero definire l’incanto e la drammaticità insieme dell’essere al mondo? – ma la qualità della presenza, silenziosa e consapevole, il patrimonio più prezioso che può essere appreso e trasmesso. 

Tra scienza ed arte

C’è tuttavia un altro ambito dell’umana esperienza che si pesta con difficoltà ai canoni della trasmissibilità: l’espressione artistica. Certo le tecniche non vanno sottovalutate, come neppure la disciplina necessaria per disporne in modo competente ed agile, ma il talento non è certo facilmente comunicabile. Ad una fase imitativa di maestri ed altri motivi ispiratori, seppure importantissima, succede nel vero artista una fase nella quale approda ad una fonte di ispirazione interna e che ha caratteristiche di novità rispetto a quanto ha potuto apprendere da altri. Il suo daimon (inevitabilmente dopo un periodo di difficoltà per la quale perdeva di significato quanto conosceva e non era ancora emerso il nuovo) finalmente viene alla luce. La Gestalt forse più di ogni altra forma di terapia implica un elemento creativo. La compresenza di vacuità e creatività – che ci rimandano coerentemente al tema dell’indifferenza creativa e del vuoto fertile – vengono congiuntamente ripresi da Naranjo, nel suo Gestalt Therapy (1993) dove ricorda come l’attitudine sia “particulariy true of Gestalt therapy where the therapist is more challenged than in others to be both a naked human being and an artist”.  Ad ogni incontro si tratta di far emergere qualcosa, una gestalt appunto, e di accompagnarlo sino a che questa nuova figura, emergendo da uno sfondo, acquisti densità, nitidezza, contrasto, energia. La maieutica si avvicina quindi alla scultura. In entrambi i casi si tratta di evocare da una massa più indifferenziata una nuova entità che vieppiù si connota di coerenza interna, di definizione, di vita propria. “L’arte del mettere e l’arte del levare” (pittura e scultura, per Michelangelo) si ripropongono nella poiesis della terapia ridefinendosi, nella dizione di Perls, come “sostegno e frustrazione”. Ma come incapsulare in formule definite la mirabile complessità insita nell’operare di un artista? Esporsi al contagio del suo operare è sicuramente più vantaggioso che leggere trattati che tentano di decodificarne il segreto. Anche in tal senso acuista valore la definizione di Claudio che vede nella Gestalt una tradizione fondamentalmente orale nella quale alcuni principi teorici sono sicuramente di supporto ma che mai potranno esaurire la complessità e ricchezza dell’evento umano che evocano.

Analogamente al processo di apprendimento in ambito artistico, anche nella psicoterapia, che può definirsi come l’arte di aiutare le persone ad essere se stesse, si richiedono quindi apprendimento di tecniche e inventiva, disciplina e fantasia, ragione ed intuizione, emisfero sinistro e destro, esprit geometrique ed esprit de finesse per dirla con Bergson. Questa composizione tra una dimensione dionisiaca con una apollinea, già invocata da Neitschke nella Nascita della tragedia a proposito della intrinseca natura dell’arte, può quindi estendersi alla psicoterapia. “Contrariamente alla psicanalisi, la Gestalt non rivendica lo status di scienza, ma si onora di rimanere un’arte“, afferma S. Ginger  ne’ La terapia del contatto. Personalmente ritengo che il suo statuto la chiami a collocarsi nello spazio di incontro tra le due.

Riguardo alla relazione tra prassi e consapevolezza può essere utile accennare al fato che l’artista, come è noto, è raramente un buon critico d’arte. Produce le sue opere animato da una idea-guida (che a volte lo perseguita quasi suo malgrado come un sacro fuoco cui non riesce a sottarsi). Questo non significa che non si sia applicato per anni ad affinare le tecniche o ad imitare artisti cui si è ispirato, ma manca spesso della prospettiva culturale entro cui dare significato alel opere che produce. Il critico, al contrario, pur non possedendo in genere un talento artistico che gli permette di produrre opere significato è in grado di cogliere quegli elementi che riescono a contestualizzare un opera fino a dare ad essa un valore … anche economico. Seppure siamo ovviamente inclini a privilegiare la posizione di chi crea, rispetto a quella di colui che commenta, non va sottovalutata la funzione di chi permette di vedere con occhi più esperti un opera che potrebbe sfuggire ad uno sguardo meno consapevole ed addestrato. Nella tradizione indù, tale complementarietà viene rappresentata dalla relazione tra l’uccello che becca e quello che osserva, Shiva ed Argiuna. 

Tra terapia e teatro

Un dato è comunque certo: quello che avviene in psicoterapia non pertiene primariamente all’ambito del comprendere ma dell’esperire. Se di vita si tratta, e non aboutisticamente (come direbbe Perls) di un girare attorno alla vita, è un evento che è lecito aspettarsi e non solo una comprensione intellettuale un intellettivo. A meno che la comprensione non richiami la ha ha experience, cui si riferisce Perls, e che, pur richiamando il tema dell’ insight  analitico, tocca nello stesso tempo le corde dell’emozione, del mondo immaginale e del vissuto corporeo.

“Un professionista con abilità nella psicoterapia è, prima di tutto, colui che è in grado di produrre azioni reali, molto al di là di azioni superficiali, le quali, se non si fondano su una attitudine appropriata, non sono altro che vuoto rituale … Qualunque libro può descrivere una tecnica, ma un’attitudine deve essere trasmessa attraverso una persona” (Naranjo, La vecchia e la nuovissima Gesalt, 1990).

E se di evento si tratta – se un erlebnis siamo chiamati ad evocare – ecco che lo spazio terapeutico si confonde gradualmente con quello del teatro. In quello spazio sacro – perché tale era considerato il temenos, la scena dove eventi antichi venivano richiamati al presente nella liturgia dionisiaca della tragedia attica – avviene qualcosa perché quel qualcosa sia effettivamente il qualcosa che ci aspettiamo avvenga e non il semplice racconto di qualcosa che non è ora ma che è stato allora in uno spazio-tempo disgiunto dal palpitare della vita-adesso.

Far avvenire ora comporta una variante decisiva che, nella poesia, distingue come forme diverse e lontanissime epica e dramma. Nella prima si cantano le gesta di altri, nella seconda si agiscono, attraverso il fenomeno della mimesi (oggi diremmo della identificazione proiettiva) i nostri stessi nodi esistenziali. C’è un agire (mise en action cui la Gestalt recupera uno statuto di credito rispetto alla svalutazione dello acting out nella tradizione analitica), un far avvenire in uno spazio-tempo che è quello della vita vissuta e non raccontata che è il qui-ed-ora.

Sappiamo della precoce (già durante il ginnasio, ci dice nella sua autobiografia, “non mi preparavo per la scuola: ero troppo occupato nella mia preparazione come attore”), e dominante inclinazione di Perls per il teatro grazie anche alla frequentazione di Max Reinhardt cui lo steso Perls tributò il riconoscimento come “il primo genio  creativo che abbia conosciuto”.

“Il metodo di Reinhardt – nella testimonianza di un suo attore, Martin Esslin (da Peñarrubia, 1997, 58) – per dirigere le moltitudini  si basava sulla convinzione che qualunque comparsa era un attore e doveva recitare il suo copione come individuo totalmente cosciente degli obiettivi e delle motivazioni di ciascuno dei suoi movimenti” suona molto simile a quanto ci viene descritto da una sorella di Perls, Grete, a proposito dello stila di lavoro in gruppo “quando Fritz lavorava con una persona provocava una risonanza corale, un impatto emozionale e drammatico al quale nessuno poteva sottrarsi, un contagio di autenticità che sostituiva la idea della coesione gruppale”.

Anche questo farsi completamente “apparato recettore” attribuito a Reinhardt da un critico contemporaneo (Hermann Bahr, sempre dall’opera citata), questo “ascolare con tutti i mezzi a sua disposizione, orecchi, occhi, naso, bocca aperta, persino con la pelle” rimanda all’attitudine di Perls a cogliere ogni moto espressivo del paziente, sfumature tonali, microgestualità, cambiamenti di postura che certo non gli erano venuti soltanto dall’esperienza con W. Reich.

E infine la capacità di entrare nel personaggio. Non solo quello che doveva di essere recitato, ma nella modalità specifica che l’attore intendeva esprimere nella sua interpretazione. Sempre riportando Hesslin (da Peñarrubia, 1997, 63) “Reinhardt era capace di mostrare all’attore non come lui stesso avrebbe interpretato il personaggio, ma come ciascun attore o attrice avrebbe dovuto farlo secondo la sua specifica individualità. Reinhardt non imponeva mai la sua modalità di recitare all’attore. Prendeva il potenziale dell’attore e lo aiutava a vederlo. Una profonda fede nel miracolo dell’individualità umana, nell’autenticità e ricchezza della personalità furono la base del credo artistico di Reinhardt”.

Se di pezzi di vita si tratta … quale teoria può esaurirne l’intreccio di significati? Solo, forse, una precognizione dogmatica che presume di filtrare l’evento esistenziale attraverso il codice di valori predeterminati. Ma qui si passa alle ideologie di pensiero, siano esse di derivazione religiosa o neo-religiosa (spacciate come scientifiche) come si presentano nuove organizzazioni di pensiero che assicurano onnicomprensività esplicativa in funzione di definiti e generalmente assai limitati criteri ispiratori. Non ultima, come sappiamo, certa psicoanalisi che del Fondatore ha dimenticato l’arte sovrana del dubbio e della continua messa in gioco dei postulati teorici e delle modalità applicative.

Sulla indicibilità del mistero

Ma c’è un aspetto che depone ancora per la non dicibilità del sapere in psicoterapia. Si riconduce al sapere antico dei misteri, quegli eventi che appunto (mystes viene da myo, resto muto) non si possono raccontare. Ho ricalcato di recente il sacro suolo di Eleusi che dei Grandi Misteri ha conservato la millenaria memoria ed insieme il segreto non rivelato. Per quanto si scavi sulla natura dell’evento che, nel buio del tempio oscurato, preludeva alla epopteia, alla visione, poco   è ancora conosciuto. Viene il sospetto che non si trattasse di qualcosa che avesse valore eclatante in sé (qualcuno sostiene che l’apparizione consistesse nella ostensione di una spiga) quanto nella disposizione dell’animo ad accogliere nella sua essenzialità e purezza la manifestazione della vita stessa in un suo aspetto semplice seppur pregno di infinite riverberazioni di significato. Come a dire “è inutile che ti racconto prima. Vieni e vedi”. Dove vedere non implica la perversione del guardone, del voyeur che osserva dall’esterno evitando il rischio del contatto ravvicinato con l’oggetto di desiderio, ma di colui che dalla visione si lascia possedere, irreversibilmente contagiare.

Il dire – in quanto fonte di pre-cognizione, quindi – nuoce all’esperire. Perché raccontare la trama di un film, di un libro, di un dipinto o di un pezzo di musica? L’unico atteggiamento utile è sedurre ad esporsi all’esperienza. Trasmettere quella traccia di incanto, di rapimento che induca a sperimentare sulle propria pelle ciò che per sua natura non può essere trasmesso dalla parola, parlata o scritta, ma solo rivissuto come esperienza personale.

Il bisogno di conoscere e quindi di organizzare l’esperienza in ridondanze categoriali diventa così estremo, quasi esasperato, in alcuni individui da produrre l’effetto paradosso: la rinuncia alla presunzione della possibilità stessa di conoscere. Uno sforzo titanico destinato a fallire ontologicamente, come lo è metaforicamente quello di Lucifero e di Prometeo, quello di Mefistofele e di Gilgamesh. Ma, venendo a personaggi storici, anche di  Tommaso d’Aquino che sul letto di morte ammise l’inutilità del suo sforzo di sistematizzazione del sapere come di Platone nella dimensione orfica cui aderì dopo l’epopteia della quale si espresse testimoniando come “Il bello neppure si renderà visibile a lui come un volto … né apparirà come un discorso o una conoscenza … si manifesterà – piuttosto – esso stesso, per se stesso. con se stesso, semplice, eterno”. (Simposio)

Ma venendo ai “nostri” ritengo che anche Perls, nonostante venga spesso definito più interessato alle pratiche che ai modelli teorici, fosse di fatto perseguitato da una smisurata ansia di comprendere. Sino al punto di non sopportare una delimitazione dei  saperi  e di propendere per concezioni onnicomprensive ed isomorfiche che, a cascata, investono i diversi livelli dell’essere; da quello biologico a quello psicologico, da quello sociologico a quello artistico e spiritualistico. 

Sul volo degli uccelli e la sua teoria

Il paradosso del mio contributo sta nel fatto di essere stato chiamato, presumo, per fare l’avvocato del diavolo, salvo poi a fare un panegirico a sostegno della tesi di Claudio circa la impercorribilità di un progetto di teorizzazione della Gestalt.

Ma ho una carta nella manica: un’argomentazione forte a favore dei teorici della teoria ad oltranza. La chiamo la Teoria sul volo degli uccelli. In sintesi: Leonardo la sapeva lunga sul volo degli uccelli. Vi dedicò un trattato corredato di disegni e pazienti osservazioni. Tale sapere non gli consentì tuttavia di poter volare a dispetto dei ripetuti tentativi e della mirabile inventiva nell’esplorare le più diverse possibilità.

Jonathan il gabbiano, come tutti gli altri pennuti di cui non conosciamo il nome proprio, volano che è una meraviglia. E nulla sanno della teoria del volo.

Questo vuol dire forse che non esiste una teoria che stabilisca le leggi che governano il volo degli uccelli?

No davvero. E’ che gli uccelli volano senza sapere come avviene il miracolo di stare per aria. Non si sa chi gliel’abbia insegnato nei milioni di anni nei quali l’Evoluzione ha affinato i suoi saperi ma di fatto le leggi che ogni pennuto segue per stare in aria sono precise ed inequivoche. Anche se noi stessi e gli uccelli per primi le conosciamo poco o nulla.

C’è quindi un logos nelle cose nelle quali lo stesso logos “ama nascondersi” come ci ricorda Eraclito. L’impossibilità di esaurire la conoscenza di fenomeni tanto complessi non ci autorizza a chiudere i libri ed a rinunciare allo spasimo, pur destinato a sicura sconfitta, del conoscere. A meno di non condannare Caino (fondatore delle città), Prometeo, l’Ulisse dantesco e quanti altri si sono incamminati sul sentiero del conoscere il mondo esterno e quello interiore. Lo faremmo a parole perché tutti beneficiamo, per quanto perversamente, dei loro doni. Tanto vale assumerli seppure, magari, senza la tracotanza di chi presume di tutto poter conoscere e dominare. Senza peccare di quella ubris di cui Platone per primo si macchiò quando pretese di ordinare la Repubblica con Leggi ispirate ad un Sommo bene che divennero ispiratrici di regimi totalitari di cui l’umanità ha pagato il tragico prezzo nei secoli. “Dio creò il mondo – racconta Claudio in un suo chisteora ci penso io ad ordinarlo, aggiunse il diavolo”. Non che il tentativo di intravedere l’ordine delle cose sia tutto male, ma dio ci preservi dal presumere di svolgere tale nefasto officio!

C’è quindi lo spazio per una relazione dialettica tra dimensione esperienziale e cognitiva. In qualche modo tra forma-e-struttura nella stessa gestalt della Gestalt che, passi il gioco di parole, possiamo chiamare meta-gestalt?

Con realismo ed umiltà Perls afferma come “Stiamo appena cominciando a scoprire i mezzi e le strade effèttive di maturazione, le quali possono produrre un cambiamento” (In and Out, 1969). Ed anche Claudio si dice possibilista in prospettiva:“Ritengo una teoria sulla psicoterapia della Gestalt senz’altro possibile. (Intervista di Zerbetto, 1991). Salvo poi a precisare come “E tuttavia vorrei distinguere tra una teoria appropriata su quello che avviene nell’interazione da una semplice raccolta degli aforismi psicologici di Fritz del tipo “l’ansia è un eccitamento privato della respirazione” o “l’ansia è la distanza tra l’ora e il futuro”. Ritengo che oggi disponiamo di basi sufficienti per formulare non solo una teoria della Gestalt ma una teoria dell’interazione terapeutica in generale; e delle tecniche della Gestalt in particolare. Se ci sono chiari i principi generali la comprensione di particolari tecniche e metodi possono apparirci come dei corollari”.

Questo obiettivo non è tuttavia facile, a meno di non accontentarsi di idee che rappresentino “più una spiegazione che uno scheletro”, come lo stesso Naranjo precisa nella introduzione al suo Gestalt Therapy del 1993. Nello stesso testo compare tuttavia uno spunto che sembra riaprire la discussione circa i fondamenti teorici autentici alla base dell’operare terapeutico: “Una aspetto che mi sembra incompleto in questo libro, nonostante le successive integrazioni: l’aver mancato di includere, nella mia discussione sulla implicita filosofia di vita della Gestalt, il tema relativo alla fiducia nell’autoregolazione organismica”. Tale concetto, che ai gestaltisti appare relativamente scontato, è stato ancora scarsamente recepito nella cultura psicologica corrente stando ad una ricerca bibliografica dello stesso Naranjo che non ha riscontrato una produzione scientifica sul tema condotta su 200 riviste specializzate nel periodo 1966-96.

In un’altra occasione (Intervista di Zerbetto, 1991) Claudio ammette la presenza di una filosofia implicita anche se ribadisce come questa non sia sufficiente a rendere efficace una terapia in mancanza di altre componenti parimenti e probabilmente più importanti: “non è sufficiente far propri dei punti di vista o un’implicita fìlosofia: se credi nelle potenzialità terapeutiche della consapevolezza e se credi nell’autoregolazione e nella spontaneità hai già due terzi della teoria della terapia della Gestalt. L’altra componente molto importante, credo sia l’attitudine confrontativa o, per essere più precisi, la confrontazione e il sostegno. II 50% di quello che fa un terapeuta è confrontazione e il 50% il sostegno di espressioni autentiche”.

Il tema che resta maggiormente aperto, tuttavia, non è tanto quello sulla teoria della tecnica, cui Claudio ha dato una impostazione relativamente esaustiva, quanto sulla teoria della Gestalt in senso stretto, tema al quale vorremmo dedicare le ultime pagine di questo scritto. 

La Gestalt in sé

Ha qualcosa di veramente toccante l’espressione con la quale Perls, nel suo In and Out cerca di esprimere qualcosa che lui stesso percepisce come inesprimibile: cosa cioè debba intendersi con il termine gestalt (mi rendo conto della incongruenza nello scrivere la parola gestalt a volte in minuscolo, quando tendenzialmente la si usa come termine corrente,  ed a volte maiuscolo, quando si intende dare alla stessa la connotazione più ampia di filosofia. Tale incongruenza,del resto, compare spesso anche in relazione ad altri termini come Tao,  Zen, psicoanalisi etc.) .Una Gestalt è un fenomeno irriducibile. E’ un’essenza che c’è e che sparisce se si frammenta il tutto nelle sue componenti”. E ancora “Mi ci sono voluti ancora alcuni anni per capire la natura dell’autorealizzazione nei termini di Geltrude Stein “Una rosa è una rosa è una rosa”. L’uomo, al contrario, aggiungerà Perls in altre occasioni, è sempre alla ricerca di essere altro da quello che è o potenzialmente potrebbe essere. In tale discrepanza tra realtà ed auto-ingiunzione ricrea lo spazio della sofferenza psichica e della follia.

Alla domanda (chiara e confusa insieme, a mio parere, e tipica dello stile iperconcettuoso, conglutinato e semanticamente discutibile di Perls ) se “non esiste dunque la possibilità di un orientamento ontico nel quale il Dasein – il fatto ed i mezzi  della nostra esistenza – manifesta se stesso, comprensibile senza spiegazioni …”  non esita a rispondersi con un “c’è sì! Per quanto possa sembrare sorprendente, viene da una direzione che non ha mai preteso lo status di fìlosofia. Viene da una scienza ben nascosta nelle nostre università; viene da un approccio che si chiama: psicologia della Gestalt”.

Gestalt è quindi, nella concezione di Perls, qualcosa che va al di là di un concetto inerente le leggi della percezione e della psicologia. E’ una filosofia e ancora di più: “Gestalt! Come posso far capire che la Gestalt non è solo un altro concetto fabbricato dall’uomo? Come posso dire che la Gestalt è, e non solo la psicologia, qualcosa che è inerente alla natura?”. Sembra qui di alludere alla Gestalt come a qualcosa che inerisce la struttura stessa della realtà, la natura delle cose.

O, meglio, gestaltung

L’attitudine delle entità della materia – ma verosimilmente anche dello spirito ovvero della materia “sottile”, come il pensiero, seppur non implicando entità che trascendono completamente una componente materia – si strutturerebbe per virtù intrinseca, autogena come strutture-forme, come gestalten (anche il plurale della parola, in tedesco, è discutibile dal momento che alcuni termini finiscono per trascendere la propria matrice linguistica perdendo i vincoli delle regole grammaticali di origine). Tale processo viene generalmente chiamato gestaltung o morfogenesi ed è stato oggetto di un mio contributo preliminare presentato al congresso di Gestalt di Città del Messico nel 1991 (La costrucciòn y la destruccion de las figuras-formas).

Le gestalten, infatti, non sono un processo fisso, ma un fenomeno in perpetua evoluzione. Tale fenomeno riguarda la configurazione della materia a partire da quel big bang che sancì il passaggio da energia a materia e che, lungi dal produrre caos, produsse, insieme alla materia, le quattro leggi fondamentali attraverso le quali la materia stessa si organizza. Ad una tendenza entropica, che tende a dissolvere e disorganizzare la materia, si contrappone quindi una forza sintropica che giustifica il passaggio da forme più elementari e disperse a forme sempre più articolate e auto-organizzate. Tale processo viene attualmente definito autopoiesi, ma in realtà cominciamo solo ora a conoscere le leggi che possono giustificare il passaggio da atomi semplici a strutture molecolari più complesse e sappiamo ancora molto poco delle leggi che hanno portato alla formazione di materiale organico e al fenomeno definito nascita della vita. Viene il sospetto che il processo che sottende la aggregazione della materia secondo direttrici così complesse implichi un disegno intrinseco la cui origine è veramente difficile spiegare. E’ nota l’espressione di Einstein relativa al non aver capito nulla dell’universo osservando un moscerino che si muoveva sui fogli pieni delle sue formule. Dove è scritto il disegno che istruisce le cellule che compongono una piuma di uccello o la struttura di un orchidea è difficile dire. Ai confini estremi della ricerca empirica pare si sconfini in interrogativi inevitabilmente trascendenti che rimandano alle idee platoniche e ad un iperuranio dove le leggi dell’organizzazione del mondo sono scritte anche prima che il mondo si manifesti nelle sua dimensione fenomenica. La fenomenologia sconfina quindi nell’ontologia e la possibilità di descrivere si arresta di fronte all’indescrivibile.

Giungeva alle stesse conclusioni, interrogandosi sul significato di “Gestalt”, Koffka a conclusione della sua opera poderosa sulla Psicologia della Forma con una sintesi che colpisce ancora per la sua forza definitoria “La parola “Gestalt” designa un’entità concreta e individuale, che esiste come qualcosa di staccato e che ha come uno dei suoi attributi la forma, o configurazione” (Kohler, 1929). Una Gestalt è perciò un prodotto dell’organizzazione e l’organizzazione è il processo che produce la Gestalt. Ma, come definizione, questa specificazione non basta, se non teniamo conto della natura dell’organizzazione espressa nella legge di pregnanza, e del fatto che, come categoria, l’organizzazione è diametralmente opposta alla mera giustapposizione o alla distribuzione casuale. Nel processo di organizzazione “ciò che concerne una parte della totalità è determinato da leggi intrinseche, inerenti a tale totalità” (Wertheimer, 1925). In base a tale affermazione possiamo dire che il processo di organizzazione è “dotato di Gestalt” tanto quanto i prodotti dell’organizzazione; nel titolo di questo libro e da tutti gli psicologi della Gestalt il termine è stato usato in quest’accezione più ampia. In quest’accezione il termine comporta l’alternativa caos-cosmo; dire che un processo, o il prodotto di un processo, è una Gestalt, è come dire che esso non può venire spiegato dal mero caos, dalla mera combinazione cieca di cause essenzialmente non connesse; è come dire – ricorrendo a un linguaggio metafisico per rendere un’idea espressa tante volte in questo libro da nozioni scevre di metafisica quanto lo può essere una nozione scientifica – che la sua essenza è la ragione della sua esistenza”.

E’ curioso osservare come, ancora una volta, un procedimento empiricamente fondato può sconfinare, laddove condotto sino alle sue estreme conseguenze, in una apertura di carattere metafisico. Una constatazione che non cessa di stupire gli stessi gestaltisti che pur partiti da posizioni biologicamente fondate e scevre da fughe sublimative si trovano “naturalmente” a confrontarsi con implicazioni di carattere transpersonale. 

Academic bullshit ed estasi intellettiva

Seppure appare ampiamente condivisibile il parere di Naranjo “A me sembra che Perls avesse un genio per l’interazione terapeutica, ma che non fosse né dotato né appropriatamente formato come un teorico” credo sia altrettanto indubitabile l’attitudine dello stesso a farsi rapire da grandi intuizioni non solo nella dimensione esperienziale, ma anche intellettuale. Il convincimento sulla potenza del concetto di Gestalt viene ribadito a più riprese da Perls e certo non solo per avere credito in una ambiente scientifico tradizionale. Perls scriveva questo negli ultimi anni della sua vita allorché poteva concedersi il lusso di non dipendere più dal riconoscimento in ambito accademico. Credo quindi che si trattasse di autentica ed intima convinzione quella che lo portava, anche precedentemente (nel Gestalt Therapy) ad pronunciarsi con espressioni come “La verità del principio della Gestalt dovrà venir accertata dal futuro sviluppo della scienza. Non avrei però scritto questo libro, basato su una teoria non positivistica, se non fosse mia profonda convinzione scientifica che la verità richiede una simile filosofia”.

Se la sola applicazione intellettuale non è sufficiente, va anche detto tuttavia che l’ignoranza di per sé serve ancora meno. Tale sembra essere anche il pensiero di Perls che si scagliava contro il fatto che ad Esalen, dove operò negli ultimi anni, “Dei giovani senza formazione guidano dei gruppi d’incontro: “Non funzioniamo senza LSD. Al diavolo le diagnosi! Ci prendiamo gioco dei casi limite!””. Anche Naranjo (Gestalt Therapy, 1993) al di là della diffidenza per la teoresi pura applicata alla psicoterapia non manca di ribadire come “Lungi dall’essere contrario alla teoria, ho espresso le mie critiche nei confronti dell’orientamento anti-intellettualistico, ereditato da molti”.

Corollari da un concetto non concettualizabile

Il concetto di Gestalt, come si è visto, può essere difficilmente riportato al rango di un semplice concetto. Non a caso viene spesso avvicinato al concetto di Tao. Con un’analogia possiamo dire che assomiglia all’importanza dello zero in matematica o della linea retta che non esiste in natura, ma rappresenta il fondamento per la costruzione della geometria euclidea sulla quale abbiamo potuto costruire le diverse architetture del mondo abitabile. Da questo primum movens – una specie di motore immobile – derivano parimenti una serie di corollari di estrema pregnanza concettuale e validità operativa che, in una successione non sistematica ma solo abbozzata, possiamo indicare nei seguenti.

L’organismo-gestalt

L’autopoiesi, riferita agli organismi biologici, viene generalmente definita autoregolazione organistica. Merita riportare il credito attribuito da Perls a questo concetto dove, nell’introduzione alla Gestalt Therapy del 1951, afferma come “II magnifico lavoro di Goldstein nella neuropsichiatria non ha ancora trovato il posto che merita nella scienza moderna”. Anche Claudio sembra concordare con tale riconoscimento stando al già citato: “se credi nelle potenzialità terapeutiche della consapevolezza e se credi nell’autoregolazione e nella spontaneità hai già due terzi della teoria della terapia della Gestalt”.

Duole constatare come lo stesso testo di Abraham Goldstein, Organism, del 1947., non sia stato ancora tradotto in molte lingue (tra cui in italiano). Il testo ha ricevuto di recente nuova attenzione dal momento che una sua riedizione porta l’introduzione a forma di Oliver Sachs.

La fede nelle potenzialità autoregolative, comporta sia a livello terapeutico che filosofico e religioso, delle conseguenze a dir poco epocali. Se a Nietzsche si deve il riconoscimento del fatto che “esiste più saggezza nel corpo che in tutte le filosofie” come ad Haidegger il fatto che l’esser-ci precede il discorso sull’essere, non meno significativo appare lo spostamento da una concezione trascendentalista (la natura, specie quella umana, è persa senza la Legge che viene dall’Alto) ad una immanentista (il Logos abita, come il Buddha, l’intimo delle persone. Si tratta semmai di farlo maieuticamente emergere).

Perls ci rende partecipi in In and Out dell’appassionato dialogo interno a proposito dell’isomorfismo dalla materia inorganica alla dimensione dell’etica: “Vedo che hai preso qualche scorciatoia e che ne hai approfittato per rifìlarci la tua chimica. Ancora non vedo i rapporti fra chimica e morale”. E aggiunge “Mi piace la formulazione che all’origine la morale non è un giudizio etico, bensì un giudizio organismico”.

Il punto zero

Questo principio comporta, a sua volta, un corollario successivo. Nel processo di crescita infatti possono verificarsi delle spinte evolutive secondo traiettorie che si rivelano, per direzione o intensità, disfunzionali rispetto all’equilibrio omeostatico dell’organismo. Da una dimensione più elementare (ma non per questo banale) come l’autoregolazione sul tasso degli ormoni tiroidei e da cui dipende lo stato di salute per quanto concerne questo parametro ed a cui Perls fa riferimento sempre nell’In and Out si conclude che “Una cellula o un organismo che ha perso il proprio centro – il punto zero, la normalità, il punto di indifferenza creativa – scopre questo squilibrio e i mezzi per ristabilirlo”. Con i consueti salti di livello Perls coglie lo stesso principio isomorfoico sia a livello di chimica che di biologia, psicologia, filosofia e … mistica. “La sua opera fìlosofìca mi impattò profondamente – riconosce Perls in In and Outda lui appresi il significato dell’equilibrio, del punto zero tra due opposti”. Nell’accezione più ampia, infatti, Perls trae da Friedlander – personaggio cui più che ad ogni altro riconosce come maestro ed a cui opportunamente Claudio ha dato spazio in questo stesso volume attraverso il contributo di Ludwig Frambach – l’idea fondamentale che regola la dinamica polare. Questa non risponderebbe ad una logica di contrapposizione tra opposti ma ad una interazione dialettica mirante al raggiungimento di un equilibrio di forze nel quale si definisce lo stato omeostatico o punto zero.

Giova ricordare che alla stessa concezione sembra ispirarsi la struttura dialogica insita nella tragedia greca che fa appunto emergere, sotto diverse angolature, le conseguenze tragiche di situazioni nelle quali una polarità si contrappone senza possibilità di interazione integrative con la polarità opposta (vedi Fedra e Ippolito, Antigone e Creonte, Dioniso e Penteo). In tale prospettiva non si assiste ad uno scontro tra una entità buona ed una cattiva, tra dio e diavolo, ma ad uno scontro tra dei” come cita J.P. Vernant (Mito e targedia, tr. it. Einaudi ed.). L’elemento tragico non sta quindi nell’intrinseca negatività di una polarità in gioco ma nella contrapposizione (e non dialettica) tra le due forze in gioco.

Una consapevolezza… anche  inconsapevole

Tele legge, che pure compare nella citata opera di Goldstein, viene da Perls estesa a tutta la dimensione del reale, come abbiamo già osservato in occasione della sua concezione sulla Gestalt. Riferendosi al punto zero (ibid.) Perls afferma infatti che “Questo può essere un processo semplice e molto complicato, e presuppone che almeno tutta la vita organica possieda consapevolezza”. Una intelligenza immanente sembrerebbe regolare infatti i diversi livelli della realtà costituendone la legge portante, la struttura che sottende le infinite forme in cui si dispiega: il altre parole la struttura-forma, la Gestalt, appunto.

Il fatto che la materia abbia un’anima, quasi un principio ispiratore che ne orienta le traiettorie evolutive e auto-organizzatrici rappresenta una conclusione sicuramente ardita e che lui stesso riconosce: “Posso capire che potreste non essere d’accordo con me nella teoria che tutto è consapevolezza, ma non riesco ad accettare la vostra riluttanza guardo all’idea di Gestalt”. Si direbbe un vero pronunciamento di fede in questa realtà tanto evidente a chi  si esprime con tale appassionata adesione quanto difficile da suffragare con elementi empirici di dimostrazione. 

La gerarchizzazione della relazione figura-sfondo

Il corollario a tale postulato implica inoltre la necessità di ipotizzare un criterio che guidi l’emergenza delle traiettorie evolutive rispetto alle infinite possibili. Perls non ha dubbi su quale sia la legge empirica e fenomenica che la individua seppure – ancora una volta – la sua intima scaturigine resta nella sua essenza misteriosa “E la formazione fìgura/sfondo più forte che assumerà provvisoriamente il controllo dell’organismo totale. Tale è la legge: dell’auto-regolazione dell’organismo”. Tale principio, ancora una volta, si applica sia alla dimensione del reale (materia inanimata e/o organica) che della percezione – e quindi della psicologia – che della stessa semantica: “Esiste un contributo molto importante che i gestaltisti hanno dato alla nostra comprensione: la differenziazione della Gestalt tra fìgura e sfondo. Questo contributo riguarda la semantica, o il significato del significato”.

Il cerchio si chiude …  aspirale

Mi sembra importante segnalare come tale concezionesulla Gestalt come dato primario, direi ontico (ma anche Perls, come abbiamo visto, usa lo stesso termine) fosse ben delineata anche per gli autorevoli teorici della Psicologia della forma e spesso ingiustamente dimenticati, laddove, per voce di Koffka nell’omonima opera, si dice come “Per essere più concreti, ha la nostra psicologia contribuito all’integrazione di natura, vita e mente? Occorre a mio avviso sostenere che ha cercato di farlo. II giudizio in merito all’esito di questo tentativo dipenderà in ultima analisi dalla verità, o adeguatezza, del concetto di Gestalt. Questo concetto non appare circoscritto dalla divisione tra i vari regni di esistenza, essendo applicabile entro ciascuno di essi. La dimostrazione di Kóhler dell’esistenza delle Gestalt fisiche ha condotto a stabilire una nuova unificazione di natura e vita; se l’ordine pervade la natura inorganica. non c’è alcuna ragione di postulare nuovi fattori di ordine, specifici della vita. Il principio dell’isomorfismo, elaborato da Wertheimer e Kóhler, ha integrato la mente con la natura e la vita. Esso è risultato straordinariamente fecondo nella ricerca sperimentale; fornisce infatti direzioni precise alle ipotesi fisiologiche, che a loro volta portano a nuovi sperimenti psicologici”.

Da questi postulati teorici deriva, a mio parere, e senza scarto di continuità la coerente applicazione nella pratica clinica. Dando ancora la parola a Perls, pur riconoscendo che: “siamo ancora lontani da una autentica comprensione della relazione tra comportamento dell’organismo e il comportamento della personalità” si può tuttavia affermare come “Ogni interferenza con l’elasticità dello scambio primo piano/sfondo causa fenomeni nevrotici e psicotici”. Ancora una volta, la condotta operativa (laddove corretta …e la definizione circa la sua correttezza resta un mistero) consente di procedere anche dove la teoria non è sufficientemente sviluppata da rendercene ragione.

Chiara e tendenzialmente radicale è la posizione di Perls quando afferma ancora che “L’omeostasi, il sottile meccanismo dell’organismo che si autoregola e si autocontrolla, è sostituita da una sovrapposta follia di controllo estrema che indebolisce la capacità di sopravvivenza della persona e della specie”. Da questa posizione deriva il corollario per il quale l’essenza dell’intervento terapeutico sta nel prendere coscienza dei meccanismi di auto-interruzione che impediscono al principio autoregolativo di svolgere il suo compito evolutivo.

Quale Gestalt  dopo Fritz?

Invitato ad aprire il IV Congresso internazionale di psicoterapia della Gestalt tenutosi a Siena nel 1991 su Per una scienza dell’esperienza con una relazione sulla Gestalt after Fritz Claudio ebbe a rammaricarsi del fatto che ilo requiem per la Gestalt, intonato da Isador fromm ed altri autorevoli colleghi della East Coast in riferimento alla presunta degenerazione della gestalt nell’evoluzione dell’ultimo Perls, evidenziasse al contrario l’impoverimento di un filone che si era appoggiato maggiormente su presupposti di carattere teorico rinunciando ad evolvere come aveva fatto al contrario la Gestalt della East Coast. Claudio sembra anche condividere con J. M. Robine l’impressione che, negli ultimi decenni, non sia dato registrare avanzamenti sostanziali sia a livello teoretico che metodologico nella Gestalt terapia.

Se un breve escurso mi è concesso (che no pretende di essere ovviamente esaustivo) penso si possa dire che – accanto ad alcuni contributi di Joseph Zinker sul processo creativo, di Bob Hall sul lavoro corporeo e meditativo (sul versante del Vipassana che tuttavia viene tenuto sostanzialmente distinto e parallelo rispetto a quello della Gestalt), di Abraham Levitzky sulla giuntura Gestalt e Psicoanalisi, di Robine e Joe Latner (oltre, mi sia concessa l’immodestia) me medesimo, sulla teoria del Sé, di Serge Ginger sulla ricostruzione dei fondamenti epistemologici e sulla dinamica interemisferica, di Marie Petit sulla giunzione con la fenomenologia, di Barrie Stevens sulle tecniche di visualizzazione, di Walter Kempler sulla terapia familiare, di Sonia Nevis sul ciclo del contatto e sulla terapia di coppia – le direttrici che maggiormente hanno avuto impulso sono attribuibili a Claudio Naranjo. Dico questo, non solo in riferimento a specifici apporti personali, ma anche grazie ad una scuola di pensiero e di applicazioni che ha integrato un certo numero di collaboratori impegnati in settori particolari, seppure all’interno di un orientamento relativamente coerente. Contrariamente a Perls, che rimase un gigante isolato (vedi anche quanto riportato da Gaines nella sua biografia) ed incapace di collaborare “strutturalmente” con suoi allievi e collaboratori se non per brevi periodi di tempo, credo di poter asserire che (accanto ad altre esperienze pur pregevoli, ma a mio parere più limitate, come la scuola di Cleveland, di Parigi, di Ragusa di Madrid) che una crescita come organismo metazoico (composto cioè da più individualità collegate funzionalmente) sia avvenuta e stia ancora avvenendo nel cenacolo animato da Claudio Naranjo.

Mi riferisco in particolare a:

  • lavoro sulla consapevolezza e quindi interfaccia tra Gestalt e pratiche meditative. E’ del 1968 la pubblicazione di On the Psychology of Meditation, prima delle molte opere nelle quali Claudio esplora la interfaccia tra i due ambiti di ricerca. Un territorio condiviso senza eccezione da tutti i suoi più vicini collaboratori e che ha prodotto una mole incomparabile di esperienze ed acquisizioni teorico-metodologiche
  • lavoro catartico sulle figure genitoriali (Stroke, Mares)
  • interfaccia tra terapia e teatro (Coraza, Resino, Ferrara)
  • ricerca sul mito, con particolare riferimento al “cammino dell’eroe” come rappresentazione paradigmatica del rapporto di crescita
  • lavoro sugli “stili nevrotici” e sulle strutture caratteriali nella prospettiva dell’Enneagramma
  • lavoro sul corpo e sul movimento sul quale Claudio opera prevalentemente attraverso suoi collaboratori (Cheriff, Kretshmer, Asin, Casanova)
  • lavoro sulla voce (Nakkash, Medina)
  • lavoro sul rapporto di coppia e sulle strutture familiari (Stroke, Cecchini, Garriga)
  • supervisione (Penarrrubia, Rams, )
  • non ultimo il lavoro attinente le “doors of perceptions” per usare un termine huxleiano e con gli emotional enhancers reso comprensibilmente più difficoltoso da indiscriminate norme restrittive successive agli anni ’70. Un ambito ampiamente esplorato da Perls ed al quale pochi gestaltisti hanno il coraggio di dare il significato che merita

In una dimensione che vuole rimanere critica (in senso popperiano) ritengo che aspetti tuttora in ombra, nell’ambiente culturale e di crescita promosso da Naranjo, siano proprio quelli relativi alla ricerca epistemologica e, per alcuni versi, alla Art Therapy (che personalmente preferisco definire GestaltArt ritenendo limitativo il riferimento alla cura) sulla quale tuttavia vanno sviluppandosi esperienze interessanti, oltre a quelle di teatro e di espressione musicale (non dimenticando che Claudio è, in origine, e non solo, un musicista), nella poesia (Elizalde), nelle arti grafiche (Penarrubia, Puidjevall). Prospettiva nella quale mi auguro di poter dare io stesso un modesto contributo. 

Ipotesi per un approfondimento teorico della Gestalt

Al di là di affinamenti ed arricchimenti metodologici, ritengo che anche la teoria della Gestalt abbia ancora grandi potenziali di sviluppo. Anziché ripiegarsi sulla reiterazione di concetti ormai acquisiti e che comunque vanno conservati come fondamenti epistemologici la cui utilità si dimostra vieppiù convalidata, ritengo che gli approfondimenti più significativi possano venire da un allargamento di contesto ben al di là dell’ambito specifico della psicoterapia in senso stretto. Alcune di tali direttrici, a mio avviso, potrebbero riguardare:

  • l’approfondimento delle griglie percettive sia in funzione delle nuove acquisizioni in materia di neuroscienze che dei collegamenti tra fenomeni senso-percettivi, strutture cognitive ed emozioni
  • acquisire elementi derivanti da studi sulle dinamiche autopoietiche della materia, sia a livello inorganico che organico
  • raccordare i temi collegati allo sviluppo della personalità, specie nelle prime età, alle recenti acquisizioni in tema di teoria dell’attaccamento e della relazione madre/bambino come paradigma originario della relazione Individuo/ambiente (meritevole in tal senso il contributo di Pancho Huneeus, Giovanni Salonia e Margherita Spagnolo Lobb nell’acquisire i fondamentali apporti di Daniel Stern)
  • raccordare le gestalt individuali con quelle archetipiche attraverso lo studio del mito ed un lavoro che non si limiti al rispecchiamento del mito nelle singole storie personali ma che consenta di evocare (ed eventualmente agire attraverso una azione drammatica) la stessa dinamica mitopoietica
  • acquisire il principio già anticipato da Koffka circa le configurazioni di personalità (già individuate, seppure in modo approssimativo e grossolano come stili nevrotici). Fondamentale, seppure tuttora scarsamente valorizzato in ambito gestaltico, appare l’apporto di Claudio Naranjo che integrando griglie nosografiche di varia provenienza (Sheldon, Jung, Reich e Wallon) con tradizioni ssapienziali antiche ha riproposto una rivisitata classificazione nelle strutture enneatipiche.

Una gestalt chiamata persona

Su quest’ultimo punto ritengo doveroso aggiungere ancora una parte, a mo’ di appendice. E’ nota infatti, nell’ambito della gestalt, la diffidenza per ogni forma di nosografia che, in quanto tendete a fare delle generalizzazioni impersonali, rischiano di produrre griglie di lettura limitative anziché favorenti la possibilità di cogliere le unicità e complessità della singola situazione che si persenta nel lavoro clinico e, più ancora forse, nel lavoro di facilitazione nel percorso di crescita dell’individuo. Tale posizione, che ha comportato indubbi vantaggi rispetto ad approcci stereotipi e descrittivi, ha tuttavia comportato un handicap nello sviluppo di strategie definite, confrontabili e quindi valutabili nella applicazione clinica ponendo la Gestalt terapia ai margini del dibattito scientifico in questi importanti ambiti di applicazione.

Da questi postulati teorici riportati deriva, tuttavia, e senza scarto di continuità la coerente applicazione nella pratica clinica. Dando ancora la parola a Perls (In and Out, 1969), pur riconoscendo che: “siamo ancora lontani da una autentica comprensione della relazione tra comportamento dell’organismo e il comportamento della personalità” si può tuttavia affermare come “Ogni interferenza con l’elasticità dello scambio primo piano/sfondo causa fenomeni nevrotici e psicotici”. Ancora una volta, la condotta operativa (laddove corretta …e la definizione circa la sua correttezza resta un mistero) consente di procedere anche dove la teoria non è sufficientemente sviluppata da rendercene ragione.

A conclusione del suo prezioso, e sicuramente sottovalutato, volume su Principles of Gestalt Psychology del 1935, Kurt Koffka si chiede “La personalità è una Gestalt? E, se lo è, di che tipo di Gestalt si tratta?” Queste sono domande concrete e in quanto tali consentono una ricerca basata su metodi scientifici. Cosa significherebbe dire che la personalità non è una Gestalt? Sarebbe come dire che le sue diverse unità di comportamento (o tratti) sono indipendenti l’una dall’altra e possono venir unite in qualsiasi combinazione. Se invece la personalità è una Gestalt deve esserci interdipendenza tra le sue varie manifestazioni e numerose combinazioni di tratti devono risultare escluse”.

Riportando anche i dati di Allport e Vernon (1933, Studies in Expressive Movement, New York) riporta come “I dati sperimentali indicano chiaramente che i movimenti espressivi della personalità non sono specifici e irrelati; formano al contrario configurazioni  coerenti, anche se tali da sollevare molti problemi… Dai nostri risultati si ricava che i gesti e la scrittura di una persona riflettono uno stile individuale stabile e costante. Le sue attività espressive non appaiono dissociate e prive di relazioni reciproche, bensì organizzate e ben configurate. I dati indicano inoltre l’esistenza di una congruenza tra i movimenti espressivi e gli atteggiamenti, i tratti, i valori e le altre disposizioni della personalità ‘interna’” (pp. 247-48). Questa conclusione non è raggiunta alla leggera, ma in base a una approfondita discussione di teorie e risultati diversi, come pure dei risultati ottenuti dagli autori”. Tale impostazione trova puntuale applicazione nel lavoro sulle strutture di personalità che Claudio Naranjo conduce da oltre un trentennio con il vantaggio di fornire non solo schemi diagnostici ad uso dei terapeutici, ma anche – e soprattutto – strumenti di autoanalisi e di lavoro correttivo sui tratti caratteriali distorti. Ma è inutile dilungarsi su un tema che molti lettori conosceranno già approfonditamente mentre, per coloro che non lo fossero, è bene rimandare alle numerose pubblicazioni sul tema. 

Illuminazione o follia?

Non vi è alcun dubbio sul fatto che la sintesi operata da Perls, con il contributo degli altri fondatori della Gestalt, abbia comportato un elemento di innegabile novità nel campo della psicoterapia. La nuova configurazione di elementi di per sé non nuovi può far perdere tuttavia di vista l’importanza dei singoli elementi costitutivi. Se è vero che l’acqua, per richiamare un esempio caro a Perls, è più che la somme di idrogeno e di ossigeno, non si può dire comunque che può prescindere degli elementi da cui deriva. La mia sensazione è che Perls, specie nel periodo magico della sua realizzazione umana e professionale, sia stato come abbacinato dalla forza e novità del metodo e dallo stile di lavoro da lui introdotto, sino a fargli perdere il senso del debito dovuto agli ascendenti culturali che lo stesso integrava pur superandoli in una nuova ed originalissima sintesi. Dando a lui stesso la parola, sempre dall’In and Out Poi venne l’illuminazione: nessun sostegno spirituale, morale, fìnanziario, più da nessuna fonte! Tutte le religioni non erano che crudi manufatti umani, tutte le fìlosofie non erano che giochi di adattamento fatti dall’uomo. Dovevo io stesso prendermi tutta la responsabilità per la mia propria esistenza. Mi ero messo in trappola da solo (…) Con scetticismo, cercai più in là e sono arrivato dove sono ora. Nonostante tutte le tendenze anticoncettuali e pro-fenomenologiche, nessuna filosofia esistenziale si regge sulle proprie gambe. Cos’è Tillich senza il suo Protestantesimo, Buber senza il suo Chassidismo, Marcel senza il suo Cattolicesimo? Potreste immaginare un Sartre senza il sostegno delle sue idee comuniste, Heidegger senza quelle del linguaggio, o Binswanger senza la psicoanalisi? Non esiste dunque la possibilità di un orientamento ontico nel quale Dasein – il fatto e i mezzi della nostra esistenza – manifesta se stesso, comprensibile senza spiegazioni; un modo di vedere il mondo senza la distorsione dei concetti, ma dove comprendiamo la tendenziosità della concettualizzazione; una prospettiva nella quale non ci accontentiamo di prendere un’astrazione per il quadro totale, dove, per esempio, l’aspetto fisico è considerato come tutto ciò che c’è?”.

Il fatto che “la Terapia della Gestalt non è un approccio analitico ma integrativo” asserito sempre da Perls non dovrebbe far dimenticare – a lui stesso come a noi –  che analisi e sintesi, lungi dal contrapporsi, rappresentano una polarità intrinsecamente interconnessa. Sterile sarebbe infatti un riduzionismo che privilegi il punto di arrivo dimenticando il complesso ma inevitabile processo necessario per giungervi.

Uroboricamente

La figura dell’animale archetipo che si alimenta di se stesso cibandosi della propria coda. Mi ha sempre un po’ angosciato l’idea, ma mi sono poi reso conto di averla adottata (diciamo inconsciamente) nel logo dell’istituto di formazione che coordino. Ero partito, in realtà, dall’idea di disegnare in stile zen un cerchio, ma non chiuso, come è appunto nella tradizione cui si ispira, ma aperto ad un accenno di spirale. Uso quest’immagine come metafora di un processo, nella relazione dinamica tra teoria e prassi, che, in ultima istanza, rimanda ad una dialettica polare non contrapppositiva, ma che anzi si alimenta della diversità dei due fattori in gioco. Come acutamente viene già detto in premessa al Gestalt Therapy (1950) “Sia per la redazione di questo libro sia per la sua comprensione profonda è indispensabile un atteggiamento che, come teoria, permea realmente di sé il contenuto e il metodo del libro. Pertanto il lettore si trova apparentemente di fronte a un compito impossibile: per capire il libro egli deve avere una mentalità ‘gestaltista’, e per acquistare quest’ultima, deve capire il libro. Per fortuna, questa difficoltà è ben lontana dall’essere insuperabile, poiché non sono gli autori che hanno inventato una tale mentalità. Al contrario, noi crediamo che il punto di vista gestaltico, sia l’approccio originario, naturale e non deformato alla vita; cioè, al pensare, all’agire, e al sentire dell’uomo”.

D’altra parte, dando ancora la parola a Koffka, “La teoria della Gestalt è stata coerente nel suo sviluppo. Ha dapprima studiato le leggi_fondamentali della psicologia nelle condizioni più semplici, nei problemi quasi elementari della percezione; ha poi incluso nel suo studio insiemi sempre più complessi di condizioni, occupandosi della memoria, del pensiero e dell’azione. Ha cominciato a considerare le condizioni in cui la personalità stessa diviene oggetto della ricerca. Trattandosi però soltanto di un inizio, è più saggio aspettare che i tempi siano più maturi”. Ci sembra di poter dire che i tempi in realtà sono maturati e che l’affinamento delle attitudini e delle tecniche per lavorare efficacemente sui disturbi della funzione di contatto – e quindi della personalità – sono estremamente progrediti attraverso un allargamento delle capacità di Perls a centinaia di psicoterapeuti che, pur non possedendo lo stesso carisma ed intuito, sono nella sostanza in grado di perpetuarne efficacemente l’opera.

Più lacunoso resta l’avanzamento della teoremi che, pur avendo in Perls molti ingredienti potenziali, non ha trovato ancora menti speculative in grado di svilupparne più organicamente il pensiero. L’errore sarebbe tuttavia quello di farsi condizionare negativamente dagli aspetti formali insoddisfacenti dell’opera di Perls. Come una buona levatrice, dovremmo dedicare una infinita cura per non gettare il bambino con l’acqua sporca. Le intuizioni di Perls hanno un incredibile valore teorico. Si tratta tuttavia di perle (intenzionale l’accostamento di parole) che devono essere pulite estraendole dal fango e dai detriti delle inesattezze linguistiche, dai salti repentini di argomento, dalle ibridazioni sui diversi livelli di lettura del fenomeno osservato, dalle mancate citazioni sulle fonti. Sono schizzi, spesso, non dissertazioni: materiale grezzo (come appunto lo furono gli appunti dati a Goodmann) e non compiuto. Sulla Teoria del Sublime, scritto da un anonimo ellenista, viene tuttavia sottolineata la differenza tra la poesia corposa e visionaria, seppur stilisticamente disomogenea di un  Omero e quella più puntuale, ma assai meno pregnante di un Esiodo. Il tratto ossessivo, che spesso caratterizza gli uomini di lettere o di scienza, impedisce loro di valutare a pieno la folgorazione intuitiva laddove non supportata dal cesello del lavoro sul testo. Critica legittima ma che spesso non rende giustizia di ciò che distingue una concezione grande seppure imperfetta da una più povera seppure perfetta. C’è da augurarsi che menti aperte e capaci di sostenere con disciplina e tenacia il duro lavoro intellettuale, possano dare adeguato sviluppo e sistematizzazione alle idee profetiche seppure incompletamente espresse del Padre della Gestalt.

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2019-01-08T16:40:08+00:00Commenti disabilitati su Il Logos ama nascondersi
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